Luoghi di culto islamici. Parere del Comitato per l’Islam Italiano
1. Le proposte di regolamentazione
È stato chiesto a questo Comitato un parere riguardante la regolamentazione dell’esercizio pubblico del culto, con particolare riferimento alla libertà religiosa dei fedeli musulmani. Poiché, nella prospettiva di regolamentare in termini generali la materia dei luoghi di culto, possono ricomprendersi anche i diritti degli appartenenti ad altre religioni che si stanno affacciando nel nostro Paese, può essere utile stabilire un principio di massima in grado di armonizzare il rispetto delle diverse culture e l’ottemperanza alle leggi civili valide erga omnes.
Se, da un lato, è estranea al diritto italiano la nozione di “moschea”, dall’altro è costituzionalmente garantito, in via generale, il diritto alla libertà religiosa che comprende, nel suo nucleo centrale, il diritto a disporre di luoghi di culto.
Esistono numerosi disegni di legge, depositati alla Camera dei Deputati nel corso della XVI legislatura, contenenti norme sulla realizzazione degli edifici di culto, di cui non è ancora iniziato l’esame in Commissione, segnatamente il C1246 Gibelli, che demanda alle Regioni la potestà di autorizzare la realizzazione di nuovi edifici destinati a funzioni di culto, tra i quali un piano di insediamento degli edifici dedicati ai culti ammessi, che tiene conto del reale numero di immigrati regolari legalmente residenti sul proprio territorio, e prevede l’indizione di referendum locali per l’approvazione di tali insediamenti da parte della popolazione del comune interessato; il C552 Garagnani, che limita l’utilizzo degli edifici di culto a finalità religiose, con il divieto di costruire scuole prive dei requisiti essenziali stabiliti dall’ordinamento generale della pubblica istruzione; il C2186 Zaccaria, inteso a introdurre una disciplina in materia al fine di garantire il diritto a ricevere contributi pubblici e ottenere agevolazioni tributarie a tutte le confessioni religiose che abbiano una comunità dei fedeli nell’ambito territoriale di un comune, con la facoltà di costruire anche in deroga alle norme urbanistiche sulla zonizzazione, ove limitative senza giustificati motivi; il C3249 Sbai, nel quale si prevede l’istituzione di un Registro pubblico delle moschee e di un Albo nazionale degli imam presso il ministero dell’Interno. Altri testi, incentrati sulla formazione degli imam, sono oggetto dei disegni di legge, depositati al Senato, il S755 Cossiga volto a introdurre una regolamentazione provvisoria per la confessione islamica in Italia; il S1042 Musso, inteso a introdurre il silenzio-assenso nella procedura di autorizzazione da parte di un comune per la realizzazione di un edificio di culto, ma prescrive l’indicazione esplicita dell’identità del soggetto gestore dell’edificio di culto. Alla Camera dei Deputati sono stati depositati il C1454 Farina, che replica il testo Cossiga; il C512 Napoli, in cui si rende necessario un certificato antiterrorismo rilasciato dall’autorità di pubblica sicurezza per il responsabile religioso o del responsabile della realizzazione di una moschea; il C1050 Santelli, in cui si prevede l’istituzione di un registro degli imam e alcuni requisiti minimi per l’iscrizione. Benché siano stati assegnati alla Commissione Affari Costituzionali, per tali testi non è stata ancora iniziata la fase della discussione e della calendarizzazione.
Da un lato, è necessario sottolineare – sulla linea già seguita da questo Comitato in occasione del proprio parere su burqa e niqab – che non è ipotizzabile una confessionalizzazione delle leggi, né tantomeno una regolamentazione specifica che riguardi l’islam, poiché pur in presenza di una lacuna normativa che interessi maggiormente la sensibilità di alcune specifiche comunità, le leggi debbono essere intese erga omnes e uguali per tutti i cittadini. Dall’altro, non è compito specifico di questo Comitato inoltrarsi in un dibattito specialistico sugli aspetti più tecnici del diritto pubblico. A tale compito sono chiamati in modo precipuo gli uffici legislativi degli enti competenti per materia, a partire dalle Regioni, mentre il vaglio della costituzionalità delle norme approvate o in via d’approvazione spetta agli organi previsti dalla Costituzione stessa.
In questo campo, in cui si incontrano sensibilità, opinioni e culture assai distanti, si raccomanda un’attenta valutazione delle Linee guida (Guidelines for Review of Legislation Pertaining to Religion or Belief) adottate dall’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa nella sessione annuale di Edimburgo del 5-9 luglio 2004.
Appare comunque urgente indicare alcuni criteri per evitare che – sebbene per l’edilizia di culto non sia necessaria la sottoscrizione di intese fra lo Stato e la comunità islamica in base a quanto previsto dall’articolo 8 della Costituzione italiana – la proliferazione di luoghi di culto al di fuori delle regole dia luogo a incomprensioni con la popolazione circostante, nonché a fenomeni di disturbo alla quiete pubblica che generi a sua volta conflittualità.
2. La giurisprudenza e il territorio
Secondo una ricerca condotta dal professor Stefano Allievi, docente di sociologia
presso l’Università di Padova, sul territorio italiano vi sarebbero 764 luoghi di culto
per i musulmani (in arabo musalla), in gran parte magazzini e scantinati adibiti alla
A titolo descrittivo va ricordata in questa sede la consuetudine, ormai invalsa in numerosi Comuni italiani, di presentare all’amministrazione locale una richiesta per poter fruire di locali pubblici da adibire a centro culturale. Una volta ottenuta la concessione degli spazi, ne viene chiesto il cambio di destinazione d’uso, pur in assenza di modifiche ai piani urbanistici, allo scopo di adibire i locali a luogo di culto, in ciò adeguandosi ad alcune normative vigenti, quali la legge sull’associazionismo dell’Emilia Romagna. La pratica di utilizzare costruzioni per preghiera, e tre moschee vere e proprie (in arabo masjid), costruite cioè con cupole e 1
minareto, che si trovano a Roma, Catania e Milano . Dalla mappa dei ricercatori emerge che in Italia i luoghi di culto per musulmani sono concentrati nel nord, in particolare in Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, mentre al sud, con l’eccezione della Sicilia, il numero appare più esiguo. Una realtà che si spiega con una percentuale superiore di immigrati di fede musulmana nelle regioni settentrionali, dove è più facile trovare lavoro a causa della concentrazione dei poli industriali.
A titolo descrittivo va ricordata in questa sede la consuetudine, ormai invalsa in numerosi Comuni italiani, di presentare all’amministrazione locale una richiesta per poter fruire di locali pubblici da adibire a centro culturale. Una volta ottenuta la concessione degli spazi, ne viene chiesto il cambio di destinazione d’uso, pur in assenza di modifiche ai piani urbanistici, allo scopo di adibire i locali a luogo di culto, in ciò adeguandosi ad alcune normative vigenti, quali la legge sull’associazionismo dell’Emilia Romagna. La pratica di utilizzare costruzioni per attività diverse da quelle per le quali sono state realizzate, quando non tenga conto delle leggi sul governo del territorio, non può tuttavia essere considerata legittima soltanto perché riguarda in generale il legittimo diritto al culto. Anche nella giurisprudenza più recente, tali stratagemmi giuridici sono già stati giudicati abusivi dalla sentenza 27 luglio 2010 n. 4915 del Consiglio di Stato, proprio nel caso di una sala di preghiera islamica, confermando quanto deciso dal TAR Trentino Alto Adige - Sezione Autonoma per la Provincia di Bolzano con sentenza 30 marzo 2009, n. 116, "Moschee e pianificazione urbanistica".
Sulla stessa linea aveva sentenziato in data 23 aprile 2009 il TAR di Trento, giudicando illegittima una dichiarazione d’inizio attività riguardo al progettato cambio di destinazione funzionale, in quanto mancavano alcuni fondamentali requisiti, quali le idonee infrastrutture di servizio, come i parcheggi e la viabilità, che seppure idonee per la funzione associativa, si rivelino evidentemente inadeguate alla funzione religiosa del luogo di culto, destinato ad attirare e concentrare un elevato numero di persone.
Egualmente, la sentenza 27 novembre 2010 n. 8928 del Consiglio di Stato, avverso l’accoglimento del ricorso della locale Associazione Centro Culturale Islamico da parte del TAR Lombardia (sentenza n. 2716/2009), sempre in materia di abuso edilizio avvenuto durante un cambio di destinazione d’uso da un laboratorio artigiano a un luogo di preghiera, distingue il piano dei «diritti costituzionalmente tutelati, quale è il libero esercizio del culto» e l’esigenza della «corretta applicazione della normativa edilizia».
Si ritiene auspicabile pertanto che, per l’insediamento dei luoghi di culto, le amministrazioni locali predispongano, all’interno delle norme tecniche di attuazione dei Piani regolatori generali, apposite zone destinate ai servizi di quartiere, tra cui sia specificamente prevista la categoria “AR - attrezzature religiose esclusi i conventi”, non rivelandosi evidentemente idonee a tale scopo aree ad uso prevalentemente residenziale, atte a ospitare semmai associazioni politiche, sindacali, culturali e religiose, al fine dell’integrazione della residenza con le altre funzioni urbane.
Tra i requisiti che si indicano come segnali di un percorso di condivisione di regole e obiettivi fra le minoranze religiose e l’ambiente circostante, vi è inoltre l’adesione alla Carta dei Valori della cittadinanza e dell’integrazione, adottata con Decreto del Ministero dell'Interno del 23 Aprile 2007.
3. Il diritto islamico e la sovranità nazionale
Né possono essere taciute le esigenze di sicurezza e ordine pubblico, che appaiono giustificate dalla ripetuta attività di indottrinamento, radicalizzazione e reclutamento svolta a partire dagli anni 1990 sul territorio italiano, presso alcuni centri culturali che si sono ispirati all’ultrafondamentalismo islamico e gestiti da persone condannate per diversi reati anche connessi al terrorismo internazionale. Alla costante attenzione delle autorità di polizia verso il rischio che in luoghi di culto improvvisati possano sorgere minacce – come è stato più volte accertato nel corso delle inchieste svolte dalla magistratura – nei confronti della società italiana e della stessa comunità
internazionale, occorre che si affianchi una realistica consapevolezza della
configurazione dell’Islam in Italia.
A questo proposito, non può essere sottovalutata l’esistenza di alcune pretese di
extraterritorialità, che in alcuni strati minoritari della popolazione islamica
coincidono con l’adesione alla dottrina, propria del diritto sharaitico più antico, che
impone una rigida separazione fra “credenti” e “miscredenti”. È stata perciò
richiamata l’esigenza di rendere meno ambiguo lo statuto a cui si intende che
soggiaccia il luogo di culto islamico, laddove entri in gioco la legislazione italiana
oppure la suddivisione del territorio in una parte pacifica, il dâr al-islâm o «casa 2
dell’islam» compresa in una dâr al-amn «casa della sicurezza» , e alcune zone di conflitto come il dâr al-harb o «casa della guerra» e il dâr al-kufr, «casa della miscredenza», che indica i luoghi in cui la legge islamica non può essere ufficialmente applicata. È chiaro che una cultura giuridica che si conformi a tali princìpi evidenzia la propria distanza dal concetto di uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, soprattutto allorché il dâr al-islâm sia inteso anche come comprensivo di «territori riservati», sui quali non può essere tollerato nessun controllo politico di uno Stato straniero. La questione è vieppiù complicata dall’esistenza di «territori canonici», nei quali i musulmani sono tenuti a osservare apertamente l’islam, dove esso sia religione riconosciuta ufficialmente, anche se l’autorità governativa non è musulmana. Inoltre, vi è una terza categoria, dâr al-sulh o dâr al-‘ahd, «casa della tregua» o «casa dell’alleanza», che comprenderebbe territori tributari dell’islam, che con esso abbiano firmato un patto e non devono perciò pagare l’imposta dovuta dai «protetti», gli ebrei e i cristiani.
Autorevoli esponenti islamici in Italia sostengono che la moschea non soggiace che alle leggi dello Stato in cui sorge. Ne consegue che sul territorio italiano va rispettata la legge italiana, non soltanto allo stesso modo in cui la si rispetta in Paesi a maggioranza islamica dove le normative in materia religiosa sono finanche più restrittive che in Occidente , ma altresì risolvendo il nodo del rapporto con le
istituzioni democratiche, laddove invece «la prevalenza di strutture politiche autoritarie e l’atrofia delle istituzioni della società civile in un’ampia parte del mondo islamico hanno reso la moschea una delle poche opportunità di espressione del disagio popolare verso le condizioni politiche, economiche e sociali» .
Si è considerato però opportuno – data la pluralità di opinioni sul tema – inserire un approfondimento chiarificatore al documento steso da questo Comitato. Per contribuire a un grado maggiore di connessione fra le comunità islamiche e il tessuto sociale in cui sono inserite ed evitare la formazione di gruppi etnico-religiosi incapaci di dialogo e di riconoscimento reciproco, sono già state avanzate in altri contesti nazionali alcune proposte che indicano nello “spirito di servizio” (in arabo kidmah) una delle soluzioni culturali da «applicare alla società più estesa oltre le mura della
moschea», per ottenere un coinvolgimento più ampio attraverso l’impegno sociale e civico .
4. Collaborazione e prevenzione del radicalismo
È accaduto infatti, in altre Nazioni europee, che esigenze di sicurezza abbiano reso urgente e necessaria l’adozione di misure drastiche. Nel Regno Unito, allo sgombero della moschea londinese di Finsbury Park nel febbraio 2005 – qualche mese prima degli attentati alle linee metropolitane di trasporto pubblico compiuti il successivo 7 luglio – ha fatto seguito la sostituzione della classe dirigente del luogo di culto. Se i precedenti gestori erano legati a personaggi coinvolti con il jihadismo, i loro successori hanno tuttavia ottenuto risultati solo parzialmente apprezzabili. Ufficiosamente invitati dalle autorità a prendere possesso della moschea, alcuni appartenenti alla Muslim Association of Britain hanno evidenziato un orientamento politico-religioso ambiguo, benché espresso pubblicamente, che si è tradotto in un selettivo rifiuto della violenza, senza escludere dichiarazioni in cui si giustifica il terrorismo suicida in Israele. E ciò, insieme a un giudizio che non si distanzia dalla condanna violenta dell’apostasia dall’islam, ha suggerito ad alcuni commentatori che, sebbene sia stata così risolta a breve termine l’emergenza legata alla sicurezza e si siano al contempo moltiplicate le iniziative di dialogo con le istituzioni, la cultura diffusa nella moschea di Finsbury Park non appare compatibile con i valori propri della società civile e religiosa circostante. Il solo scongiurare il pericolo della violenza quindi non risulta di per sé sufficiente a garantire a lungo termine l’integrazione, come hanno evidenziato i controversi risultati del programma britannico di contro radicalizzazione PVE (Preventing Violent Extremism). Prova ne sia il commento di Shiraz Maher, già alto dirigente della branca britannica del movimento Hizb ut-Tahrir, secondo il quale «il difetto teorico centrale nel PVE è che accetta la premessa per cui gli estremisti non-violenti possono essere fatti agire come baluardi contro gli estremisti violenti. Gli estremisti non-violenti si sono di conseguenza ben radicati come partner del governo nazionale e locale e della polizia. Alcuni dei collaboratori scelti dal governo nell’opera di “indirizzo delle rivendicazioni” di giovani musulmani arrabbiati sono loro stessi in prima linea nell’alimentare tali rivendicazioni contro la politica del governo britannico; i valori sociali dell’Occidente; e una presunta “islamofobia” promossa dallo Stato. Il PVE perciò sta sottoscrivendo la vera ideologia islamista che corteggia una visione illiberale, intollerante e anti-occidentale. Estremisti teologici e politici, agendo con l’autorità conferita loro da un riconoscimento ufficiale, stanno indottrinando giovani non-violenti, il cui impatto risulta ancora difficilmente valutabile. Nei primi anni 1990, in effetti, le autorità francesi si erano rese conto dell’emergere di attività criminali, di un aumento della disoccupazione e del senso più generale di disorientamento che pervadeva le banlieue, i quartieri che circondano la maggior parte delle città francesi. Come risposta, le autorità francesi hanno iniziato a dare autorità a organizzazioni locali legate ai Fratelli Musulmani che erano già impegnate in iniziative dal basso per allontanare giovani musulmani dal crimine e dalla droga. La percezione che gruppi islamisti non-violenti potessero ottenere successo dove lo Stato aveva fallito, aveva condotto molti politici francesi, in particolare a livello locale, a fornire loro sostegno finanziario. Questa partnership improntata alla sicurezza è stata largamente messa in atto, sebbene mai resa ufficialmente una scelta politica formale, e ha ricevuto nuovo slancio dopo gli attacchi dell’11 settembre contro gli Stati Uniti. Se, durante gli anni 1990, alcuni politici francesi consideravano gli islamisti non-violenti come “pacificatori sociali” che mantenevano l’ordine all’interno delle banlieues, l’emergenza del terrorismo e della radicalizzazione come priorità dello Stato ha aggiunto una nuova responsabilità, individuando gli islamisti non-violenti come possibile antidoto ai jihadisti. Già quindici anni più tardi, i risultati hanno generato scetticismo in molti. Costoro considerano il fatto che la criminalità e il senso di disorientamento che affliggevano le banlieues non sono stati ridotti dall’attività dei gruppi islamisti non-violenti. È ancora più rilevante che altri indichino gli sviluppi sociali negativi conseguiti alla loro influenza» .
Va evitato quello che nella teoria dei movimenti sociali viene definito «effetto positivo dell’ala radicale» , del quale si trova a beneficiare l’ala relativamente più
moderata nel momento in cui emergono frange più estremiste. Un simile sviluppo si è prodotto quando, con l’affermarsi di Al Qaeda e di altri gruppi jihadisti, alcuni governi europei sono stati indotti a vedere l’ala meno radicale – i gruppi islamisti non-violenti – in modo più benevolo e perfino ad accarezzare l’idea di stabilire con essi alcune forme di collaborazione.
Laddove l’illusione è stata più intensa, lo è stata altrettanto la delusione, come in Danimarca, dove «è noto che gli imam danesi che contribuirono a far precipitare la controversia sulle vignette in un caso internazionale erano considerati moderati e avevano ricevuto supporto finanziario dallo Stato, con l’inclusione di viaggi e opportunità di costruire relazioni. Un esame più attento ha rivelato che tali individui non erano affatto veri moderati» .
Del resto, nessuno è in grado di garantire che la controversa qualifica di “moderati” sia acquisita o confermata per sempre. «Umar Farouk Abdulmutallab, che tentò di far esplodere una bomba su un aereo in volo sugli Stati Uniti il giorno di Natale del 2009 e Cüneyt Ciftci, il primo attentatore suicida della Germania, sono soltanto gli ultimi esempi di militanti il cui percorso di radicalizzazione ha preso il via in gruppi islamisti non-violenti prima di progredire oltre»
5. Le regole per la trasparenza
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Se l’esercizio del culto in luoghi privati, espressione delle più fondamentali garanzie costituzionali, può essere declinato con ampi margini di discrezionalità, l’esercizio del culto in luoghi pubblici o aperti al pubblico può richiedere una chiara volontà di seguire non solo gli ordinari standard di legalità, a tutti richiesti, ma anche una maggior disponibilità volta ad assicurare piena trasparenza e volontà di fattiva integrazione nel contesto di insediamento.
Pur in assenza di una normativa specifica, alcune comunità islamiche hanno provveduto a stilare alcune linee guida per una disciplina dei luoghi di culto della confessione islamica. In particolare la Comunità Religiosa Islamica (CO.RE.IS.) e il Centro Islamico Culturale d’Italia (C.I.C.I.) hanno inteso stendere un codice di “buone pratiche” che garantisca uno statuto giuridico riconosciuto alle istituzioni religiose islamiche, ispirato alla trasparenza nella gestione dei fondi destinati all’edificazione della moschea o comunque raccolti da fedeli e donatori, evitando categoricamente collusioni con associazioni o realtà di natura ideologica o settaria e cioè i princìpi delle quali siano contrari a quelli dell’ordinamento giuridico nazionale. L’iter che segue, pertanto, riflette e integra le linee di quella elaborazione, con l’avvertenza che si tratta di un incoraggiamento all’emersione della realtà sommersa, all’interno di un’opera di persuasione, non di repressione o schedatura, che induca a cessare la pratica di mascherare luoghi di culto dietro attività culturali, ricreative, sportive o commerciali.
A questo scopo, si suggerisce che il pagamento della elemosina rituale, zakat, terzo pilastro dell’islam, che può essere costituita da denaro o da beni, avvenga nel rispetto della libertà e riservatezza di ciascun fedele. L’elemosina rituale, così come eventuali lasciti o donazioni, dovrà perciò essere gestita dal consiglio di amministrazione dell’associazione a cui fa capo il luogo di culto o, in assenza di questo, dal presidente dell’associazione, secondo criteri di trasparenza e in conformità con la normativa fiscale e civilistica in materia.
Dei lasciti e delle donazioni dovrà inoltre essere tenuta regolare contabilità al fine di consentire il controllo della provenienza e dell’entità da parte delle istituzioni. Uguale trasparenza dovrà essere garantita in relazione ai finanziamenti ricevuti per l’acquisto dei terreni o per l’edificazione e l’acquisto del luogo di culto. L’associazione dovrà inoltre redigere regolari bilanci preventivi e consuntivi per ogni anno finanziario. Alcuni punti, in particolare in materia di integrazione, meritano di essere evidenziati. Tra essi, si stabilisce che nel luogo di culto e nelle attività ad esso connesse, non sono consentite attività di propaganda politica e ideologica. Né dovranno essere consentite attività di commercio, ristorazione o altro, laddove non rispettino le normative vigenti nelle relative materie.
Quanto ai requisiti tecnico-giuridici, i luoghi di culto islamici, relativamente alle procedure edilizie e urbanistiche, alle norme di sicurezza e di gestione, e dell’ordine pubblico, dovranno fare riferimento esclusivo alla normativa nazionale e locale vigente. Perciò, gli edifici dovranno essere costruiti in totale conformità con la normativa edilizia e urbanistica e, dunque, previa approvazione dell’Ufficio Tecnico del Comune. Essi dovranno essere inseriti in zona urbanistiche compatibili con la destinazione d’uso di “pubblico interesse” o “luogo di culto”. La comunità islamica deve individuare l’area per l’edificazione del luogo di culto, con le idonee caratteristiche urbanistiche, e presentare il progetto all’Ufficio Tecnico del Comune che lo esamina e ha facoltà di proporre soluzioni alternative.
La comunità islamica si fa carico di acquistare l’area per l’edificio da adibire a luogo di culto, che dovrà corrispondere a criteri di estetica e decoro, anche in relazione all’entità del bacino d’utenza e deve essere conforme alle vigenti norme urbanistico edilizie nonché a quelle in materia di igiene, sanità, sicurezza e ordine pubblico. A tale fine deve essere prevista anche la possibilità di parcheggio delle automobili in misura adeguata all’affluenza dei fedeli. Per i luoghi di culto di nuova edificazione si dovrà richiedere regolare destinazione d’uso a luogo di culto dell’edificio interessato, secondo la normativa in materia e le disposizioni dei piani urbanistici.
Nel luogo di culto, che si auspica aperto a tutti coloro che vogliano pacificamente accostarsi alle pratiche cultuali o alle attività in essa svolte, le medesime linee-guida auspicano dunque che si consenta la pratica del culto a tutti i fedeli di religione islamica, uomini e donne, di qualsiasi scuola giuridica, derivazione sunnita o sciita, o nazionalità essi siano. Allo stesso modo, si chiede il superamento delle limitazioni per quanto riguarda i soggetti non appartenenti alla fede islamica che rispettino la sacralità del luogo e le regole e non arrechino disturbo allo svolgimento dei riti. All’interno del luogo di culto, inoltre si consiglia che i sermoni siano pronunciati in lingua italiana, laddove la recitazione coranica della preghiera rituale deve essere tenuta in lingua araba.
Queste le indicazioni generali, frutto di un’attenta e matura riflessione da parte di alcune realtà islamiche presenti e attive in Italia, a cui potranno essere opportunamente aggiunte alcune specificazioni, con riguardo specifico ai servizi d’istruzione religiosa e di consulenza giuridica offerti dalla comunità islamica. Dell’esigenza di trasparenza si dovrà tenere conto anche per la celebrazione di matrimoni all’interno di strutture religiose: il tema, che riguarda riti che hanno un valore esclusivamente religioso, andrà ripreso quando si tratterà dello statuto dei ministri di culto. Inoltre, si ritiene necessario che i luoghi di culto non abbiano al proprio interno vani adibiti a pratiche sanitarie. Infine, si rimanda l’esame di una disciplina che riguardi le guide religiose a un prossimo intervento del Comitato in tema di associazionismo e imam.